Autore: Andrea Donnini
TITOLO : Mai dimenticare.
Una mattina arrivarono le "guardie nere", le loro divise mi ricordavano qualcosa, forse le avevo viste nelle vecchie scritture ma non avevo modo di consultarle: erano oltre il recinto. Ci fecero correre fino alla piazza principale. Volarono insulti e bastonate. Tre giovani, le teste calde del villaggio, provarono a reagire e aggredirono una guardia. Li presero e li massacrarono di botte, il giovane ufficiale urlò di alzarci in piedi.
- Portateli qui! - Ordinò grattandosi nervosamente l'orecchio. - Bastardi Credenti! Vedrete cosa succede a non ubbidire.
Non dimenticherò mai quegli sguardi, li conoscevo poco ma i loro occhi li ho ancora nel mio cuore.
- In ginocchio! - Gridò, la voce era stridula e sembrava trapassarti il cervello. Questa volta sul suo volto un sorriso di soddisfazione.
Erano davanti a noi, mio padre accennò un sorriso come dire: - stanno scherzando, non aver paura.
Li giustiziò con un colpo alla nuca. Le nostre speranze cancellate per sempre.
- Ascoltatemi bene - proseguì l'ufficiale guardandoci con un sorriso rassicurante. - Un giorno per preparare le vostre cianfrusaglie. Domani alle otto tutti qui sulla piazza, divisi a famiglie. Venti chili di bagaglio a famiglia.
Sputò a terra e si allontanò scortato da due militari. Rimanemmo immobili, travolti dallo stupore e dalla paura.
Non riuscivo a capire, mi sembrava impossibile che pochi giorni prima ero in quella stessa piazza per la festa del mio "Passaggio". Ero felice, tenevo per mano Sara, la mia Sara, e sognavo un futuro felice. I sedici anni della gioventù erano finiti, adesso ero un uomo.
La sera ci riunimmo nella cattedrale, il sacerdote cercò di tranquillizzarci. Parlò ma la sua voce, che di solito sembrava avere il potere di calmare e di dar fiducia a chi ascoltava, suonò falsa e incerta.
- Abbiate fede, sono certo che ci trasferiranno su Babele.
I vecchi annuirono mentre i più giovani non accettavano di subire in silenzio.
- Avete visto? - Gridò il figlio del farmacista. - Sono delle bestie. Gli Atei non ci hanno mai accettato, ci vogliono allontanare per saccheggiare le nostre case, le nostre chiese.
- I no-nostri fratelli musulmani - balbettò Francesco - no-non staranno certo in silenzio.
- Basta! - Disse il sacerdote rivolgendo lo sguardo in alto. - Ho parlato con l'Imam. Nessuna sommossa, nessun pretesto per usare le armi. Abbiamo vissuto in pace con gli Atei per secoli e ora, questa maledetta guerra non deve rovinare tutto. Pregate. Il Signore non ci abbandonerà. Tornate nelle vostre case e preparatevi. Vedrete, andrà tutto bene.
Non dissi niente e seguii mio padre verso casa. Lungo la strada vidi Sghillo, lo scemo del villaggio, mi salutò agitando le braccia come un mulino a vento mentre correva dietro una gallina.
- Lo conosci bene? - Chiese sorpreso mio padre.
- No, sai... è che, lo conosco così. Ci fa sempre ridere.
Mentii, non potevo certo dirgli del mio segreto. Era stato Sghillo a portarmi all'archivio dimenticato: un sotterraneo a cui si accedeva attraverso le fognature. In quei vecchi scritti avevo scoperto le nostre origini, storie dell'antica patria Terra. Gli avevo promesso di non dirlo a nessuno e per un Credente ogni promessa è vincolo indissolubile.
Seguii con lo sguardo Sghillo che sembrava non rendersi conto di quanto stava accadendo, provai invidia per la sua spensierata pazzia. Ricordai gli scherzi che gli facevamo con Sara e Sandro. Sandro, non avevo avuto più sue notizie dal giorno dello scoppio della guerra. Era un Ateo ma per me e Sara era un amico, colui che consideravo un fratello.
Trascorsi una notte insonne, tra mille paure e interrotta da colpi di fucile e grida. Qualcuno aveva provato a lasciare l'abitato, inutile, era impossibile fuggire.
Il villaggio si svegliò nel completo silenzio, una leggera nebbia illuminava di tristezza quel giorno. Mi affacciai alla finestra e cominciai a vedere le prime famiglie dirigersi all'appuntamento.
- Che fai ancora in pigiama? - Chiese mio padre.
- Niente, mi preparo subito.
Mentre andavo in bagno mi affacciai alla camera e vidi mia madre piangere. Teneva stese sul letto tutte le foto, i filmati di una vita, i regali del suo matrimonio e scatole su scatole di ricordi.
- Mamma - sussurrai entrando - metti pure qualcosa nel mio bagaglio, lascerò il mio proiettore.
- No, tesoro. Non preoccuparti, volevo solo guardarli per un'ultima volta. Vai, corri a prepararti.
Mia sorella non mi guardò, teneva la testa bassa e sembrava sussurrare qualcosa a se stessa.
Come puoi dire a una famiglia di poter portar via solo venti chili della propria casa, dei propri ricordi?
Prima della piazza incrociai Sara con i genitori. Mi guardò e quello fu il suo ultimo sorriso che vidi. Dio mio com'era bella quando sorrideva!
La piazza era circondata da decine di militari e quelle divise continuavano a tormentare la mia memoria. Mi sentii chiamare, era Sghillo.
- Trasporto rosso! Trasporto rosso! - Mi urlò correndo.
- Cosa?
- Non avete capito? Sarei io il pazzo? Ottusi e ciechi che siete!
Guardai mio padre che mi fece cenno di non farci caso, era pazzo.
- Signor Giulio - disse afferrando mio padre per un braccio. - Non sono pazzo. Moriremo tutti. Ricordatevi, lei ha quarant'anni e tu Francesco ne hai diciotto.
- Sì, sì - rispose mio padre.
- Non sono matto. Ricordatevi cosa vi ho detto!
Mi guardò e, per un istante, nei suoi occhi sembrò svanita ogni pazzia: erano occhi saggi. Sparì alle nostre spalle saltellando e cantando come sempre. Non vidi dove fosse andato: la nostra attenzione era rivolta a ben altro.
Ogni famiglia veniva fatta spogliare completamente e gli uomini separati dalle donne. Non riuscii a sollevare lo sguardo per vedere mia sorella e mia madre nude allontanarsi da noi. Non era vergogna quella che provavo ma rabbia. Due militari le spinsero via toccandole e ridendo di loro. Com'era possibile tanto disprezzo? Dov'erano gli Atei che conoscevamo? Non era da buon Cristiano odiare il prossimo, ma quando le vidi così umiliate dubitai della mia fede.
Tra i musulmani ribollì la rabbia. Molti provarono a ribellarsi e altrettanti furono uccisi.
Il professore Lucenti, amato e rispettato da tutti, quando vide i soldati mettere le mani addosso alla figlia, tentò di uscire dalla fila.
- Fermi! - Gridò il giovane ufficiale sbucando da dietro lo sbarramento. Teneva in mano un frustino e il suo occhio vibrava vistosamente. Avanzò, il mento alto e un sadico ghigno scolpito sul volto. Solo quando fu più vicino lo riconobbi, era stato studente alla nostra scuola. Era uno dei grandi e sicuramente conosceva bene il professore.
Diede ordine di trascinare lui, la moglie e la figlia in mezzo alla piazza, proprio sotto la statua della Pace. I militari caricarono le armi e le puntarono nella nostra direzione.
- Bastardo Credente. Non hai capito gli ordini? - Gli ringhiò addosso.
- Tu? - Il professore aveva riconosciuto il suo ex alunno.
- Zitto! Zitto! - Il suo era un grido isterico.
- Non potete, non è giusto.
- Giusto? - Rise l'ufficiale. - Guardate! Guardate tutti!
Alla moglie fu tagliata la gola e la figlia violentata davanti ai suoi occhi. Due, tre persone provarono a muoversi ma furono colpite. Il tempo sembrò fermarsi, i militari risero e umiliarono la giovane come non credevo possibile.
Alla fine tre corpi senza vita giacevano davanti a noi. Guardai mia madre e mia sorella, dietro di loro Sara che piangeva a testa bassa. Era il nostro turno, prima che arrivassimo al tavolo del controllo, ebbi il tempo di vedere quello che non avrei mai immaginato. Una delle guardie era Sandro. Guardava Sara e mia sorella avvicinarsi a lui. Per un attimo sul loro volto riaffiorò la speranza ma quello che accadde, distrusse ogni illusione di pace e ogni fede in me. Sara fu violentata da Sandro sullo scivolo che conduceva al mezzo di trasporto e mia sorella, la mia dolce sorellina, scaraventata a terra e stuprata da due soldati fradici di sudore. Fu il suo impercettibile sorriso a fermarmi, lessi nei suoi occhi un "ti prego non farlo".
Piansi, sapevo che solo la speranza di sapermi in salvo le sarebbe stato di conforto. Non le rividi più, ma quel ricordo non abbandonò mai i miei incubi.
- Nome, età - chiese l'ufficiale seduto.
- Giulio Fornovo quarant'anni e lui mio figlio Antonio diciotto.
Parlò con tono secco e distaccato. L'ufficiale si avvicinò e ci tatuò un codice a barre sul braccio.
- Salite!
Solo chi aveva un'età compresa tra i diciotto e quarant'anni fu fatto salire sull'astronave rossa. Gli altri, vecchi e bambini sparirono per sempre. Vidi un nome familiare scritto sulle pareti esterne. Ancora la memoria che mi gridava qualcosa. Ci stiparono come bestie nel comparto di carico. Non era possibile sdraiarsi e neppure sedersi. L'aria cominciava a scarseggiare. Decidemmo di sederci a turno.
Vidi Sghillo, se ne stava nell'angolo, gli occhi allucinati e un continuo borbottio di parole senza senso. Si voltò e mi sorrise.
- Bravo Antonio, siete salvi. Tuo padre?
- È seduto - risposi avvicinandomi a lui. - Gli ho ceduto il mio turno.
- Moriremo, moriremo tutti! - Gridò con lo sguardo rivolto al soffitto.
Alcuni si voltarono e lo guardarono con invidia: erano sicuri che un pazzo non potesse provare dolore e paura.
- È la fine! - Continuò Sghillo. - Sterminio! Genocidio! Sterminio!
- Basta! Fatelo star zitto! - gridarono alle mie spalle.
Continuò a urlare. Mi sentii spingere via, due giovani lo scaraventarono sulla parete e lo colpirono con schiaffi e pugni. Inutile, continuava a ripetere quelle parole. Lo colpirono ancora più duramente, cadde a terra, erano colpi da uccidere una persona. Dalla bocca gli uscì sangue in abbondanza e non più parole, ma i suoi occhi brillarono ancora di pazzia.
Mi avvicinai per vedere come stesse, mi afferrò per il braccio e biascicò tra il sangue: - Ancora non ricordi il libro?
Sussurrò un nome e, in quel preciso istante mi fu tutto chiaro. Le divise delle SS e il nome dell'astronave: "AUSCHWITZ".
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